mercoledì 28 gennaio 2015

Whiplash - il potere dell'ambizione


Dicono che un'infatuazione duri dieci giorni, quello che viene dopo è amore.
Ho aspettato dieci giorni per scrivere questo post.


Qualche settimana fa vedo un poster in metropolitana: Miles Teller (che conosco perchè guardo una quantità imbarazzante di commedie romantiche), in piedi su quella che sembra una grandissima bacchetta per suonare la batteria.
Sotto c'è una recensione, che dice "So good it'll change the way you look at life"
"Talmente bello che cambierà il modo in cui guardate la vita".



Ricordo di aver alzato scetticamente le sopracciglia, pensando tra me e me che chiunque l'avesse scritto fosse un tantino pretenzioso e che ogni tanto gli inglese sono capaci di lasciarsi andare solo quando scrivono boiate. Mica nelle relazioni interpersonali, no, in quelle è tutto "fine", "alright" e altri aggettivi che non sanno né di carne né di pesce, ma fagli scrivere una recensione e improvvisamente diventa "the best thing you will ever see in your life".
Quella pubblicità però ha fatto il suo lavoro: ore dopo quelle parole mi giravano ancora in testa.
Passa una settimana, escono le nomination agli Oscar e io giro per la città senza molto da fare. Mi ritrovo di nuovo di fronte al poster.
Decido di metterlo alla prova. Salgo in metro e vado al cinema.


Whiplash è la storia di un ragazzo che studia le percussioni al conservatorio Shaffer di New York City. Allo Shaffer c'è un famoso musicista che dirige la banda scolastica più prestigiosa d'America: per un caso fortuito il protagonista viene reclutato ed inizia a suonare le percussioni nella banda.
Sarebbe una storia come tante altre, come mille altre, se non fosse per un particolare su cui si regge l'intera struttura di Whiplash: l'ambizione.
Il protagonista vuole essere grande, il più grande tra i grandi, al punto di rinunciare a tutto e di spingersi fino all'estremo per dimostrare al suo insegnante, ma anche a chiunque stia guardando, di essere abbastanza bravo.

Whiplash è un film meraviglioso: intenso e scorrevole, coinvolgente e provocatorio. E' riuscito nell'impresa impossibile di incantare una ragazza che il jazz lo odia. Mi ha tenuto incollata al sedile per due ore che sono letteralmente volate via.
Ma non è soltanto il film. Non è neanche soltanto la storia dietro al film.
E' la motivazione dietro alla storia, dietro al film.
La convinzione che c'è una necessità assoluta in questo mondo di spingere le persone oltre quello che ci si aspetta da loro. Il bisogno di andare oltre quello che ci viene richiesto e percorrere quello che gli Americani chiamano "the extra mile", sempre, e non soltanto per ricevere riconoscimenti. Perchè la vita è quello che succede tra quello che devi fare e the extra mile.
La vita è quello che succede mentre percorri quel miglio in più.
E' il sangue che sputi, la bile che ingoi, le lacrime che trattieni e quelle che versi. La vita è quel milione di dubbi che si fa vedere solo di notte, è quella vocina nella tua testa che ti dice che ci devi provare di nuovo. E' la tentazione di alzare la bandiera bianca e la consapevolezza che sei più forte di così.



C'è sempre bisogno di qualcuno che ci ricordi che si può, si deve, andare oltre. Essere oltre. Ogni tanto sono le esortazioni di un genitore, le parole gentili di un'amica, l'entusiasmo di uno sconosciuto. Ogni tanto è un film.


Whiplash è un film talmente bello da cambiare il modo in cui guardate la vita.



in Italia dal 12 febbraio al cinema

lunedì 26 gennaio 2015

Nord e Sud

Mi sveglio e mi stiracchio pigrissima e baciata dal sole timido di una domenica inglese.
Dopo aver capito chi sono, dove sono e che giorno è, azzardo qualche progetto per la giornata a venire.
Come dicevo, è domenica, e c'è il sole.
La domenica su di me ha sempre un po' quell'effetto "giornodelsignore" che richiede quasi che tu rimanga nel letto il più a lungo possibile, altrimenti sarebbe un sacrilegio. Il sole, poi, è quel timidissimo sole inglese che fa capolino da dietro le nuvole un minuto sì e due ore no, ma qui loro lo chiamano "sunny" comunque. Beata ignoranza.
Quindi, mi rigiro nel letto con il buon proposito di andare a fare una passeggiata in un quartiere di Londra che ancora non ho mai visto, tipo Chelsea.
Però fa freddo, ho una scatola di cioccolatini nella credenza e devo mettermi in pari con Orange is the New Black.

Vado-nonvado-vado-nonvado.
Vado.
Una donna saggia.

Chelsea sembra un piccolo mondo a parte, rispetto alla grande Londra.
Non c'è lo scintillio delle luci di Piccadilly, non c'è l'ostentazione di Notting Hill e neanche il menefreghismo di Camden: si respira un'atmosfera placida, calma, profondamente inglese.
Le case improvvisamente diventano belle, quasi invidiabili. Le macchine sono costose, i giardini curati, gli ospedali non cadono a pezzi.



La ricchezza traspare da ogni mattoncino rosso ma non ti prende a sberle in faccia come succede in altri posti. Ti sussurra all'orecchio, e dice: "Dicevi che non ti piace Londra, eh? Ma non sarebbe bello abitare qui?"


E mentre io cammino con il naso all'insù - perchè nel frattempo quel sole timido di cui sopra ha deciso di farsi vedere di nuovo - ecco che ricomincio a sentirmi un po' più turista, un po' meno padrona.



Sono abituata a questa città, ai suoi odori, ai suoi ritmi, alle sue tante contraddizioni. Lo sono talmente tanto da dimenticarmi, a volte, di essere soltanto un ospite qui.



Altro giro, altra corsa.

Un pacco di Amazon che doveva arrivarmi a casa si è rivelato essere troppo grande per la nostra buca delle lettere, e quindi viene tenuto in ostaggio all'ufficio postale di Winchmore Hill, North London. Per una volta, più a nord di casa mia.
Un posto talmente isolato che per andarci devo prendere un treno (Un treno, non la metropolitana. Quant'era che non prendevo un treno?).
Quando scendo dal treno mi aspetto di trovarmi in uno di quei posti con i graffiti sui muri e in cui cammini a testa bassa e senza incrociare lo sguardo di nessuno per paura di venire seguita e stuprata in qualche vicolo (sì, sono un pochino melodrammatica).

Invece mi ritrovo in questo grandissimo giardino con case grandi e pulite e tanti bar con i tavolini fuori, pochissime macchine e un sacco di bambini che giocano al parco.


North London è brutta, eh?
Il prossimo che mi dice una cosa del genere verrà malmenato e trascinato per i denti a Winchmore Hill.



Questo solo per dire: quando c'è da scoprire un posto nuovo è troppo facile cadere nella trappola e dare ascolto a chi, per eccezioni o per sentito dire, si è fatto già un'idea precisa.
"Milano è grigia"
"Dublino è cara"
"Venezia è sopravvalutata"

E invece dietro al luogo comune ci sono sempre, sempre un milione di vicoli da scoprire. E ne vale sempre, sempre la pena.





martedì 13 gennaio 2015

Martedì notte: ricordi e scatoloni impolverati



E' mezzanotte e dieci, è martedì sera, vorrei dire che sono ubriaca ma ho ancora un briciolo di amor proprio quindi diciamo solo che ho bevuto un pochino. (C'erano due bottiglie di vino, due persone hanno bevuto un bicchiere e io ho buttato due bottiglie vuote. Non lo so come sia potuto succedere.)
No, domani non lavoro. E grazie al cielo, aggiungerei, perchè lavorare con un doposbornia come quello che avrò domani dovrebbe essere illegale.

Sono a casa, più precisamente sono nel mio letto (visto che mia mamma legge questo blog e si preoccupa sempre quando bevo troppo o quando le dico che i miei progetti per la serata sono "bere fino a che non svengo sul divano". Io queste cose le dico davvero. Sono io che ho problemi, mica mia mamma. L'onestà non paga mai.)
Ho passato le ultime tre ore a:
a) raccontare ai miei coinquilini cose che sono successe e che non avrei dovuto raccontare, se non altro per non riaprire scatoloni impolverati e nascosti nella memoria e perchè è stato come aprire il vaso di Pandora: è improvvisamente uscita fuori un sacco di merda.
b) mandare messaggi idioti a un sacco di gente. Principalmente amici. Principalmente persone che so domani non me lo rinfacceranno ma che comunque coglieranno al volo l'occasione per prendermi in giro al riguardo non appena ci vediamo. Dico "principalmente" perchè, seppure ancora un po' brilla, sono perfettamente consapevole di aver mandato quel messaggio o due di troppo che avrei potuto risparmiarmi. Questi messaggi sono il motivo principale per cui dovrei imparare a spegnere il telefono quando bevo.
c) rileggere il blog che ho scritto quando ero in America.Ho riso, ho pianto, ho ricordato cose che altrimenti sarebbero state perse nei meandri della mia memoria. Ho sentito un dolore forte al cuore che è il sintomo principale della mancanza, e ho cercato di analizzare tutto questo con la lucidità emotiva che soltanto un ubriaco solitario può avere.

"Non è che l'hai idealizzata un po'?" ha chiesto mio fratello l'ultima volta che abbiamo parlato dell'America.
Certo che l'ho idealizzata. This is what I do: io idealizzo le cose. Questo non vuol dire che io non creda al cento percento nella mia idealizzatissima idea dell'America. Questo non vuol dire che io non mi aggrapperò alla mia idea con tutte le mie forze, anche e soprattutto nella remota eventualità che l'America si riveli essere anche solo leggermente peggiore di come io me la ricordi.
Come ho scritto l'ultima volta: certe cose non cambiano.
Come mi ripeto tutti i giorni: l'ultima metà è l'America.

Negli scatoloni impolverati nascosti nei meandri della mia memoria, quelli di cui parlavo prima, ci sono cose alle quali di solito non mi permetto di pensare. Alcune perchè non è passato ancora abbastanza tempo, altre perchè non c'è ancora una soluzione, altre perchè fanno male e io non sono masochista.
Altre ancora, tutte e tre le risposte.
Arrivano dei giorni in cui, per quanto uno provi ad evitarlo, la vita ce la mette tutta per fartici pensare.

"In dreams, I meet you in long conversations. We both wake, in lonely bits, in different cities."

Quando non c'è una via d'uscita piacevole sarebbe meglio evitare il problema; quando il problema è inevitabile sarebbe meglio costruirsi un'armatura per evitare, almeno, di farsi male ogni santa volta.
Quando entrambe le cose sono impossibili, si chiudono gli occhi e si prega che qualcuno, per quanto lontano, si senta nello stesso modo.

"Will you sleep tonight, will you think of me? Will I shake this off, pretend it's all okay? That there's someone out there, who feels just like me. There is."




Tra le tantissime cose che ho idealizzato nella vita c'è il mio modo di scrivere di quando ero in America. Mi sono sempre riletta pensando "cavolo, ero brava. Quanto vorrei ancora poter scrivere così, ora non ho più niente da dire."
E invece, rileggere ubriachi aiuta.
Perchè ho capito che non è vero che non ho più niente da dire. E' che con l'età, l'avvento dei social media e qualche nemico in più sono drasticamente diminuite le cose che sembro essere disposta a condividere.
Per questo adesso ho scritto senza pensare due volte a quello che ho condiviso.
Magari tra una settimana lo rileggo e mi rendo conto che condividere tutto è l'unico modo che conosco per essere me stessa, ed essere me stessa è l'unico modo che conosco per scrivere bene.

Elucubrazioni a parte, tra 28 giorni torno a casa. Questo è il primo pensiero con cui mi sveglio ogni mattina, nel mio piccolo ma comodissimo e solitario letto londinese.



p.s. Hemingway diceva "write drunk, edit sober".
Io ho seguito solo la prima parte del consiglio, ma #yolo.

venerdì 9 gennaio 2015

Cose che credevo di sapere su me stessa

Non mi piace Fabio Volo ma ho letto tutti i suoi libri. Sono una di quelle persone convinte che prima di insultare qualcosa si dovrebbe fare uno sforzo e provare a conoscerla.
Fabio Volo scrive storielle e penso che i suoi libri non siano un granché, ma ogni tanto tra tutte quelle frasi con poco senso si riescono a trovare parole o situazioni che ti rimangono in testa.
Il mio libro preferito tra i suoi è "E' una vita che ti aspetto", per tanti motivi. Quello principale è che credo che il messaggio che il libro cerca di trasmettere sia vero: se uno si vuole bene è felice, se uno è felice attrae felicità. Semplice.
Prima di volersi bene, però, bisogna conoscersi. Esattamente come bisogna conoscere una cosa prima di insultarla. E' una strada a doppio senso.

Ci sono degli aspetti di me che ho sempre dato per scontati, prendendoli come assiomi, e per i quali tanta gente mi conosce.
"Mery piange per qualsiasi film, anche per la pubblicità della Scottex con il cucciolo di Labrador"
(CHI non si emoziona con quel cane? E' il cane più tenero sulla faccia della terra, se non vi emozionate non avete un cuore.)
"Maria Chiara non mangia nessun tipo di frutta e verdura, e ODIA i pomodori"
(Qui è "Maria Chiara" perchè queste parole di solito escono dalla bocca di mia madre, che tra l'altro per questo motivo qui, ne sono certa, ha sempre segretamente meditato di disconoscermi come figlia)
"Il mio sport preferito è il salto sul divano"
(L'onestà c'è. Se avessi un secondo nome su Facebook sarei Mery Culodepiombo Pacifici).


Life motto.

Potrei elencare altre dieci cose che mi rendono "me" agli occhi della gente (Prosecco, anyone?).
Sono tratti distintivi, particolarità a cui ci aggrappiamo con le unghie e con i denti e dietro le quali ci nascondiamo spesso.
Chi di noi non ha mai detto o sentito dire "Eh, lo so, sono uno stronzo... ma sono fatto così, non posso farci niente." Il sottotitolo è "se non ti sta bene è un problema tuo e risolvitelo senza rompere le palle".
Il non poter farci niente non è vero. E' nascondersi dietro a un dito. Non è un problema degli altri, è un problema di tutti.




Negli ultimi sei mesi ho provato a conoscermi un po' più a fondo, a definirmi meglio.
Ho scoperto che tante cose che pensavo fossero certe non sono più vere, altre ancora non lo sono mai state.
Non posso più essere "quella che non mangia verdure e ODIA i pomodori", perchè li ho mangiati l'altra sera per la prima volta e, sinceramente, c'è di peggio. Mi ritrovo a cucinarmi mega insalate di spinaci e carote per pranzo, a non poter vivere senza peperoni, a mangiare le ciliegie (e per questo mio padre potrebbe gridare al miracolo. Già me lo vedo.)
Evito la farina bianca e ho eliminato lo zucchero (perchè fa male, guardate qui e poi ditemi se riuscite a bere un bicchiere di Coca Cola). In pratica mia sorella sarebbe fiera di me, mia madre sarebbe incredula e la mia migliore amica scuote la testa e pensa che io sia pazza perchè compro il miele light e le bacche di goji.

Non posso più essere "culodepiombo" perchè passo la metà del mio tempo libero in palestra.
Lo so, non me lo spiego neanche io.
Da quando ho smesso di fumare (!!!) vedo il corpo che reagisce con più prontezza e mi piace metterlo un po' alla prova.
Il salto sul divano è sempre il mio sport preferito, solo che ora mi sento un po' meno in colpa perchè per ogni tre ore sul divano ne ho passata una in palestra.



Per quanto riguarda il piangere per qualsiasi cosa, quello non è cambiato.
Sarò sempre una frignona.
Certe cose non cambiano.


Joey = Mery



martedì 6 gennaio 2015

January blues

Con un grado centigrado e pioggia battente posso ufficialmente dire che Londra ha dato il benvenuto al 2015 in grandissimo stile: stile inglese, purtroppo.
Per fortuna dicono che non diventa peggio di così (come se il freddo, il vento e la pioggia non fossero brutti abbastanza): what you see is what you get. Un lungo inverno inglese a cui far fronte.




C'è un fenomeno in particolare che sembra stia affliggendo tantissime persone intorno a me, ultimamente. Musi lunghi, sospiri, improvvisi sbalzi d'umore, e come se non bastasse meno trucco, vestiti meno appariscenti, pranzi più abbondanti, meno parole e più silenzi.
Loro lo chiamano "January blues".
Quindi se chiedi a qualcuno "Hey, c'è qualcosa che non va?", ti risponderanno con una scrollata di spalle e un "Mah, solo un po' di January blues."
E tu continui a guardarli in attesa che ti spieghino che cazzo è sto January blues, dopo dieci minuti che li fissi capiscono e iniziano a parlare.
"E' quel male di vivere che ti viene a gennaio, perchè Natale è finito, le feste se ne sono andate e improvvisamente tutto sembra più grigio."
Mettici pure che le giornate si accorciano fino a che non restano sì e no tre ore di vera luce, e che piove così tanto che ti aspetti di vedere Noè che conduce gli animali all'arca da un momento all'altro.
Da Urban Dictionary: "January blues è lo stato d'animo in cui si entra quando finiscono le feste. Inizia il 2 gennaio e dura almeno fino al primo di febbraio. E' spiacevole perchè le vacanze sono finite, la primavera è lontana e i film che escono al cinema fanno schifo. Il Super Bowl può essere una buona cura per il January blues." (Grazie Urban Dictionary di avermi ricordato per l'ennesima volta che non vivo in America e quindi la cura del Super Bowl non vale per me. Come se uno se lo potesse dimenticare.)

Gennaio è un lunghissimo mese invernale di 31 giorni.
Farsi contagiare dall'epidemia di January blues è un attimo.

Quest'anno ho scelto un approccio diverso.
Questo 2015 ho deciso che voglio prenderlo di petto un mese alla volta, e per gennaio ho già grandi progetti: manca soltanto un mese alla prova costume, tanto per cominciare. Non c'è momento migliore per ammazzarsi di palestra.
Gennaio sarà anche l'ultimo mese in cui vivrò nella stessa casa con due delle persone a cui voglio più bene a Londra: fuori fa freddo e non c'è momento migliore per stare tutti insieme sul divano a guardare la tv o a cucinare. Stasera, per esempio, barbecue e costolette.
Gennaio poi, mi dicono dalla regia, è il mese in cui si ha più energia per provare a mantenere i buoni propositi fatti per Capodanno. Non c'è momento migliore per fare ricerche, dentro e fuori. Mia mamma dice sempre che chi cerca, trova; mia mamma ha spesso ragione.

Non c'è momento migliore di gennaio, quest'anno, per fare tutto quello che si può fare per rendere il futuro un po' più bello da vivere. Per prepararlo in un modo che ci faccia dire "non vedo l'ora che arrivi". Per prendere la mira.

Ed è così che il January blues si trasforma in lunghe, tiepide e bellissime mattinate sotto al piumone.
(Altro che Super Bowl.)