mercoledì 14 ottobre 2015

Luna Park

Da dove viene il coraggio? Da dove parte, nel cervello, quello stimolo che ci spinge a fare qualcosa, quel passo in più che fa paura, ma che forse, un domani, porta alla felicità? O almeno alla non-infelicità?
Mi manca il coraggio che mi costringe ad insistere di fronte al più piccolo dei contrattempi. Il computer che è lontano. L’orologio che mi ricorda che tra meno di sette ore devo essere in piedi di nuovo, e affrontare altre facce, altre discussioni. La password che mi dimentico sempre. Tutto è una complicazione, tutto va bene purchè mi costringa a non concretizzare il sospetto che di fronte a una pagina bianca io sono impotente, vuota, inadeguata.
Forse mi manca così tanto perché lo conosco, una volta quel coraggio c’era. Non vanificava solo il tentativo dei contrattempi deboli, ma era la mia forza di fronte a qualsiasi tipo di avversità. Il computer che non era neanche il mio. L’orologio che mi ricordava che tra meno di tre ore avrei dovuto essere in piedi di nuovo, e affrontare altre facce, altre discussioni. La password che non ne voleva sapere di funzionare.
Mi manca il coraggio di sapere se è questa o no la mia dimensione: quella che mi porta di fronte a una pagina bianca, armata solo di qualche idea e di un briciolo di coraggio. E’ questo che voglio fare, confrontarmi ogni giorno con i miei sospetti e le mie paure? E’ la paura di uscirne sconfitta che mi impedisce di provare a provare?
L’unica cosa che si frappone tra me e quello che voglio fare sono io. Sono la motivazione e il deterrente insieme, e da tanto tempo il deterrente è troppo convincente. E’ perché non lo penso che non lo scrivo, o devo scriverlo per poterlo pensare?

Una persona più saggia di me una volta mi ha detto, in un modo che ai tempi avevo trovato brusco ma che forse, col senno di poi, lo era troppo poco, che dovevo scegliere un obiettivo, perché una persona, senza mira, si perde.
Ai tempi mi aveva fatto paura. Mi aveva ricordato una frase che ha detto una volta un’altra persona più saggia di me: “I’m intimidated by the fear of being average”. Però io, ai tempi, avevo soltanto un po’ di ansia lontana di essere nella media. Ironia della sorte, qualsiasi cosa io abbia fatto da quel momento in poi non ha fatto altro che confermare quella paura astratta finchè non è diventata un orrore quotidiano e paralizzante.
Adesso so che l’unica cosa che mi renderebbe diversa dalla media sarebbe fare qualcosa, eppure non sto facendo niente.
Sto dando consapevolmente a me stessa la possibilità di fare quello che non permetterei a nessun altro di farmi: fermarmi. Impedirmi di essere quello che vorrei, di fare quello che vorrei e di essere felice.
Sono intrappolata nel bosco in cui mi sono persa. Sono il coniglio che ha seguito il Bianconiglio nel bosco e poi non ha avuto il coraggio di entrare nel Paese delle Meraviglie. E sono anche il lupo che segue il coniglio in silenzio, e non lo perde mai d’occhio aspettando il momento giusto per attaccare e mangiarselo.
La parte peggiore è che il bosco è magico: è un posto bello, verde e pieno di sole in cui vivono tanti conigli e si sta, tutto sommato, abbastanza bene, ma un attimo dopo è improvvisamente diventato una foresta buia e insidiosa, gli occhi del lupo brillano nell’oscurità e quanto vorrei aver seguito il Bianconiglio, perché ovunque sarebbe meglio di questo maledetto bosco.
E poi eccola: la tana, la via di fuga, la salvezza. La porta che mi porterebbe alla luce. Però dovrei entrare nel Paese delle Meraviglie, e io non lo so cosa succede nel Paese delle Meraviglie. Potrei perdermi di nuovo, avere più paura di quanta ne ho adesso. Potrei non farcela ad arrivare dall’altra parte. Potrei inciampare al primo ostacolo e rimpiangere di non essere rimasta nel bosco, perché quando non era buio, in fondo, il bosco non era poi tanto male.
Gli occhi del lupo mi osservano mentre scelgo ogni volta di rimanere nel bosco, e si avvicinano ogni giorno. A volte, se lo guardo bene, mi sembra che il lupo mi stia implorando di saltare nella tana del Bianconiglio. Il suo sguardo inquisitorio fa il tifo per me, perché il lupo preferirebbe che io mi perda nel Paese delle Meraviglie, con la speranza di vedere un giorno la luce, altrimenti il lupo dovrebbe mangiarmi.
Il lupo non vuole mangiarmi ma io preferisco comunque aspettare che sia costretto a farlo, invece di saltare e avere una possibilità di salvarmi.

Se non lo faccio a cosa sono servite le ore passate di fronte a uno schermo nel cuore della notte? Perché tutte quelle occasioni buttate per fare solo questo? Perché le esperienze, perché le emozioni, perché la voglia di raccontarle? Che senso ha avuto tutto, se non lo scrivo?
Che senso ho io, se non scrivo?


Questo è quello che voglio ricordare, quando il computer è lontano, l’orologio mi ricorda l’orario improponibile e la password non vuole funzionare. Il brivido della passione che diventa qualcosa di innegabile, che mi guarda nero su bianco. La consapevolezza che la paura non è altro che un cagnolone dagli occhi buoni che mi guarda spronandomi a salvarmi. La curiosità per il Paese delle Meraviglie, che forse è pericoloso ma forse, perché no, è un luna park. La certezza che un solo secondo vissuto dall’altra parte è meglio di un anno da coniglio, perché il bosco non è poi così male, ma “non è poi così male” non è quello che voglio. Io ero venuta per il luna park.



lunedì 6 luglio 2015

"Vada come vada..."

Io non ci penso mai a come sarebbe potuta andare.
Dicono sia deleterio, dicono che "ma" e "se" erano due fessi che giravano per il mondo, e che comunque non lo saprai mai cosa avrebbe potuto essere e e chiedertelo non fa che farti stare male. Dicono che non si debba fare, e forse hanno ragione.
Poi succede qualcosa: un incontro fortuito in una piazza sconosciuta del centro di Roma, un vecchio hard disk che sembra essere il vaso di Pandora, una foto storta appesa al muro, una lettera scritta e mai consegnata.
Allora ci penso, a come sarebbe potuta andare. Penso che di certe cose ci facciamo una ragione, di altre no. 
Mi chiedo dove vada a finire tutto il bene, quando poi non ce lo si scambia più.

Il cervello umano è incredibile: tiene tutto, non butta mai via niente, soltanto lo nasconde dove tu non puoi arrivarci, in qualche dimenticatoio inaccessibile che forse esiste per proteggerti. Come mia madre. 
Poi basta un niente ed eccolo: ti ricordi tutto. La chiave che apre il dimenticatoio è sempre qualcosa di banale, una canzone, un odore, due o tre parole messe bene in fila. Ti chiedi come avevi fatto a dimenticare.

A sedici anni mi sembrava tutto indimenticabile. Ogni secondo, ogni serata, ogni parola detta da un amico. Vivevo tranquilla, certa che avrei ricordato tutto per sempre. 
Il rumore dei motorini e delle moto, e sapere sempre chi stesse arrivando prima che girasse la curva. I soprannomi incomprensibili e quelli scontati. Li litigate infinite con i miei, perchè io scalpitavo per tutto e loro non mi vedevano pronta... e avevano ragione. Il telefono che squilla a tutte le ore, chissà quante cose avevamo da dirci, ora sembra assurdo parlare con una persona per sei ore ed attaccare solo perchè "ci vediamo tra dieci minuti". 
La spontaneità delle emozioni, dirsi "ti voglio bene" senza pensarci due volte. Fare tutto, tutto, tutto, solo perchè fa stare bene qualcun altro. Non dire mai "che palle" o "non mi va", non farsi problemi inutili sul "chi esce?" perchè qualcuno c'era sempre e vogliamo bene a tutti. Le sorprese, i regali, venti chilometri per un abbraccio. Ora mi chiedo se sarei capace a volere così bene a qualcuno, a lasciare che qualcuno voglia così bene a me, senza vederci alcuna malizia, nessun secondo fine. 

Quando poi i rapporti si deteriorano, quando le persone si allontanano, dove va a finire tutto il bene?
Per fortuna questo è il 2015 e ci sono mille modi per sapere una persona come sta, che sta facendo, in quale parte del mondo vive. Ci sono persone che non sento da anni eppure mi sembra di aver appena finito di parlarci su una chat di msn. Nel frattempo sono cresciuti, si sono laureati, sono emigrati, hanno fatto viaggi, avuto relazioni, cambiato case, hanno vinto e perso, hanno sofferto. 
Vedo le foto e penso che quei ragazzini sono diventati uomini... anche se a me sono sempre sembrati uomini. 
Siamo così vicini, eppure così lontani. Troppo lontani per trovare il coraggio di scrivere "ciao, come stai" oppure "oggi ti pensavo, ho un pupazzo gigante in camera che mi impedisce di scordarmi di te". O ancora "ti ricordi di quel giorno che siamo andati al lago", "non riesco a sentire questa canzone senza pensarvi", e la più gettonata "ciao, mi manchi... tu ci pensi mai?".
Quanto è difficile tendere una mano, quando non hai la certezza assoluta che qualcuno dall'altra parte la afferrerà. Quanto abbiamo paura di farci male, quanto ci spaventano quei lividi sull'orgoglio. Io mi piacevo molto di più quando dicevo la prima cosa che mi passava per la testa, non ero avida di dimostrazioni d'affetto e mi sarei fatta sparare per un amico.
Dove è andato finire tutto questo bene?


Dicono che, quando qualcosa finisce, sia più facile elaborare la perdita se si ha qualcuno a cui dare la colpa. 
Ci abbiamo provato per anni: abbiamo tirato su un polverone e abbiamo addossato tutte le colpe addosso a qualcuno forse soltanto perchè non sapevamo a chi altro darle. Era più facile mettere una la foto di qualcun altro al centro del bersaglio, che la nostra.
Perchè poi ci pensi, ci ripensi, continui a ripensarci e arrivi alla conclusione che in fondo potresti incolpare tutti, ma dovresti incolpare te stessa. 
Siamo state noi, abbiamo mollato troppo presto. Non abbiamo insistito abbastanza, non l'abbiamo gestita bene. Eravamo arrabbiate, eravamo ferite ed avevamo paura, ma è colpa nostra, dovevamo tenere duro.


Questo è quello che cambierei, se potessi tornare indietro.
Adesso è più difficile, non dipende più soltanto da noi, le persone cambiano. Forse quel bene che noi continuiamo a sentire, dall'altra parte non c'è più. Forse si è trasformato in un "tante belle cose" scritto su un biglietto di auguri e poi lasciato lì.
Però questo è quello che vorrei ancora cambiare, perchè ancora si può. A me, eterna ottimista, non spaventano un paio di porte in faccia e un orgoglio un po' ammaccato... Mi spaventa molto di più avere qualcosa da dire, avere ancora un po' di bene da dare, e non poterlo fare più. Perchè la vita cambia, la gente se ne va, a volte in posti dove non possiamo andarcela a riprendere, e quella secondo me è l'unica vera fine.

E noi si era detto "vada come vada, tutti insieme fino alla fine".






"And it's happened once again
I'll turn to a friend
Someone that understands
Sees through the master plan

But everybody's gone
And I've been here for too long
To face this on my own
Well I guess this is growing up"



venerdì 22 maggio 2015

La lista dei rimpianti


E' passato più di un mese da quando sono tornata a casa, e io praticamente solo stamattina mi sono ricordata dell'esistenza di questo blog. Allora è vero che lo usavo come mezzo per far arrivare notizie in Italia, allora è vero che mi ci sfogavo e basta.

Ho fatto un po' di soul searching negli ultimi trenta (leggi: trecento) giorni. Mi sono chiesta perchè faccio tante cose che faccio, perchè è così difficile creare nuove abitudini e così facile ricadere in quelle vecchie, perchè scrivo e soprattutto perchè non scrivo.
Una delle pochissime conclusioni a cui sono arrivata è stata che uno dei motivi per cui ho smesso di scrivere è che da qualche tempo scrivevo quello che pensavo la gente volesse leggere. Strano, perchè tutti i grandi scrittori consigliano di scrivere per noi stessi, di scrivere quello che vogliamo leggere. 
Ho scritto così per anni e non l'ho mai fatto leggere a nessuno, perchè era per me: era quello che io volevo leggere, e chi lo sa poi gli altri che capiscono. Vallo a capire, poi, come le interpreta, la gente, le cose che scrivi.
Quindi è successo che volevo farmi leggere da qualcuno, confrontarmi un po' con i miei demoni, e l'unico modo per farlo era scrivere qualcosa che potessi orgogliosamente mostrare a tutti.

Ho fallito miseramente. Invece che scrivere un capolavoro, ho smesso del tutto.
Quindi ora basta, scrivo perchè mi va e chi vuole leggere, legga.





Una delle cose più belle di abitare di nuovo qui è la possibilità di uscire di casa e incontrare subito qualcuno con cui puoi essere te stesso al cento percento.
Durante una delle bellissime, onestissime conversazioni che ho avuto il piacere di fare nell'ultimo mese, riflettevamo sul fatto che, stando a Facebook, un anno fa non è più lontano di un paio di giri della rotella del mouse. Il fantastico Diario di Facebook ci ha regalato la stuzzicante possibilità di tornare indietro nel tempo quando vogliamo, e questo ci impedisce di dimenticare quanto eravamo stupidi. Bimbiminkia. Innamorati. Egocentrici. Ingenui.

Un anno fa è così lontano, ora, che sembra una vita. Altro che un paio di giri della rotella del mouse.
Non voglio stare qua a fare uno di quei pipponi infiniti che iniziano con "se potessi tornare indietro" e finiscono con "avrei fatto tutto diversamente ma non ho rimpianti". Perchè sono cazzate. I rimpianti ce li ho. Vanno da "quella volta che ho fatto una battutaccia che ha messo tutti a disagio", a "quella sera in cui ho esagerato e se ci penso ho ancora voglia di nascondermi sotto a una mattonella". 
Quello che mi spaventa è che tra un anno c'è un'altissima probabilità che tra la lista dei miei rimpianti spunti fuori la voce "non ho neanche provato a fare il lavoro che pensavo di voler fare", e quello sarebbe una tragedia.
Va bene che i rimpianti ce li abbiamo tutti, ma un rimpianto così è abbastanza grande da aggrovigliarmisi sul cuore e rimanere lì, come un macigno, finchè non divento una vecchia cinica consumata dall'invidia per chi, a differenza di me, ancora può.

"Obiettivo" è una di quelle parole con cui sto facendo il gioco dell'odi et amo da un po'. Un giorno voglio comprarmi una vision board e metterci una foto dello skyline di Manhattan, il giorno dopo se la sento scoppio in un pianto isterico. Bipolarismo portami via.
Lentamente, ci sto facendo pace.
La chiave sta nel guardare la breve distanza, non l'orizzonte. Nel senso: l'obiettivo per i prossimi sei mesi è non aggiungere troppe cose alla lista dei rimpianti. Odiarmi un po' di meno tutti i giorni. Guardarmi allo specchio e dirmi "visto che ci sei riuscita a non autosabotarti?".

E' questo quello che intendono, quando dicono "crescere"?

martedì 7 aprile 2015

Mozione / Azione

L'altro giorno ho letto da qualche parte che le persone di successo sono quelle che nella vita hanno capito la differenza fondamentale tra mozione ed azione.
La mozione è prendere la rincorsa: fare ricerche, sognare, progettare e preparare in vista dell'avvenimento vero e proprio, l'azione.
L'azione è una decisione che mette gli eventi in moto. Una volta in movimento, il corso degli eventi è pressoché imprevedibile; anche la più piccola decisione, se diventa azione, scatena una serie di causa-effetto che cambiano le carte in tavola. Ogni singola azione, quindi, ci rende artefici del futuro.
L'azione è il movimento necessario senza il quale non esiste cambiamento, né crescita. Non basta progettare, riflettere e fare ricerche: oltre un certo punto bisogna soltanto agire. "Cogito ergo sum" è il mantra della parte teoria, i fatti dipendono da quello che si fa con la teoria. Agisco, quindi sono.


Negli ultimi mesi io sono stata un'anatra.
Avete letto bene: un'anatra.
A guardarmi sembravo tutta tranquilla e ferma, ma sott'acqua pedalavo come una matta.
Tutto questo pedalare pur volendo comunque sembrare a tutti costi nel pieno controllo di me stessa è sfociato in diverse cose.

La prima è stata prendermi una sbandata per l'Australia, e pensare seriamente di voler andare down under a vivere tra i surfisti e a fare "non so bene cosa". Io, che ho paura degli squali in piscina e che voglio bruciare casa ogni volta che vedo un ragno da qualche parte. Io in Australia duro cinque giorni, poi o mi internano in un manicomio perchè la paura degli insetti velenosi mi ha fatto venire un esaurimento nervoso, oppure mi arrestano per molestie nei confronti di qualche surfista biondo col pettorale scolpito. Già vedo l'articolo sul giornale: Giovane ragazza italiana accusata di stalking verso Liam Hemsworth, si difende: "con quell'accento non avevo capito che mi diceva "sparisci".

La seconda è stata la brutta piega che ha preso il mio rapporto con il cibo. Già in partenza non era idilliaco, capiamoci, perchè io sono una che "a pranzo mangio una cupcake perchè la qualità è meglio della quantità". Adesso sono arrivata a "a pranzo mangio una cupcake, e un muffin, e un piatto di sushi, e tre etti di pasta, e il toast col burro, e un po' di formaggio, e due cioccolatini, e pure il piatto e la forchetta, perchè mi va e non dovete rompermi le scatole e se avete qualcosa da ridire andateveneaffanculo". Praticamente sono diventata una sorta di Gollum obeso e il mio anello del potere è qualsiasi cosa sia commestibile.

La terza è successa una sera che non aveva niente di diverso da tutte le altre sere. Era stata una giornata normale, avevo fatto cose normali, non era successo assolutamente niente di straordinario. Poi, da un secondo all'altro, ho sbroccato. Un secondo prima ero tutta tranquilla a fare la lavatrice e un secondo dopo ero al telefono con la mia migliore amica che cercava di impedirmi di comprare un biglietto aereo per Milano per l'indomani. Dopo due ore e una seduta di psicanalisi al telefono sono finalmente arrivata al nocciolo del problema e ho dovuto prendere la situazione in mano e guardare in faccia i miei demoni. 
Ho passato la notte con gli occhi spalancati fissi sul soffitto e la stessa canzone in repeat. E' stata una notte orribile, in cui sono inspiegabilmente riuscita ad essere brutalmente onesta con me stessa e a maledirmi per tutte le bugie che mi sono raccontata pur di evitarmi il potenziale fallimento. 
La mattina dopo mi sono alzata dal letto e mi sono guardata allo specchio: dietro gli occhi rossi e le occhiaie c'era un pizzico di consapevolezza in più. 
E' stato il punto di partenza, il primo passo verso l'azione.

Qualche giorno dopo mi sono licenziata e ho comprato un biglietto di sola andata per Roma. 

Tutto questo per dire che dopo mesi di incubazione, di mozione, finalmente ho agito.
Tra una settimana salgo su un aereo e torno a casa. 
Non ho fatto quello che molti si aspettavano da me, ma io non tirerei ancora le somme. Ho messo in moto gli eventi e non c'è ancora nessuno che sappia come andrà a finire questa storia, anche se io qualche idea ce l'avrei.
Se proprio devo esprimere un desiderio, finisce con le stelle e le strisce, e una penna in mano.


Watch this space.




domenica 29 marzo 2015

Adesso

Grazie a tutte le cose che condividiamo ogni giorno a volte penso che tutti mi conoscano, che sappiano chi sono e come sto, o che almeno capiscano come mi sento.
Mi dimentico che l'empatia arriva fino ad un certo punto e che la gente ascolta per rispondere, non per comprendere. Poi le parole volano come se non avessero un peso, si alzano le voci, ed io improvvisamente mi rendo conto che c'è chi non si immedesima, c'è chi non sa.
E allora io provo a spiegarlo.


C'è un peso, sostenibile ma dolorosamente incombente, che si appoggia sulla bocca dello stomaco quando guardo sul calendario i giorni che vanno oltre il 14 Aprile.

C'è il dubbio che bussa alla porta ogni volta che succede qualcosa di bello. Come se ormai, a decisioni prese, non mi fosse più consentito godermi le cose belle perchè tanto ho già scelto, ho già rinunciato.

Ci sono le opinioni altrui che mi crollano addosso, sia quelle che ho chiesto che quelle che mi sono arrivate tra capo e collo per quanto io cercassi di divincolarmi. Diventano bestie feroci che mi tirano giù con i loro tentacoli, mi impediscono di muovermi, di pensare, di respirare.

Ci sono i numeri che incombono, logici ed inequivocabili. Mi guardano inesorabili dal calendario, dall'estratto conto, dalla bilancia, dalla carta d'identità. Nella loro perfezione mi giudicano, me e la mia mancanza di creatività.

C'è la libertà che, come tutte le medaglie, ogni tanto mostra l'altra sua faccia, la solitudine. Mi ricorda che non c'è nessuna scelta che non comporti un sacrificio.

C'è il cuore che si gonfia e poi rattrappisce, esplode e poi si ferma, chiede e poi si chiude. Il cuore che vuole solo essere lasciato in pace, e però mi salta in gola appena può.

C'è un'armatura che non volevo, un muro che si alza. L'ho buttato giù ad ogni occasione eppure continua a salire, mattone dopo mattone. Ogni dolore un po' di calce, ogni delusione un altro centimetro.

C'è uno spirito più forte di ogni muro, che rimane fermo mentre tutto, intorno, cambia. 
E' immobile dentro di me ed immobile nelle sue convinzioni. Infrangibile, nonostante le critiche, le urla ingiustificate, le opinioni non richieste, i bastoni tra le ruote.
E' uno spirito sensibile, forse ingenuo, ma pronto, curioso, sagace. E' quello che mi suggerisce di rispondere "Scusa, allora sei mejo te".

Ad oggi, è la mia parte preferita di me.



Facciamocene tutti una ragione.

mercoledì 11 marzo 2015

Al tramonto


Succede che mi ricordo cose che ho detto, fatto o pensato e rabbrividisco. Mi mangio le mani, oppure vorrei nascondermi sotto terra, o tornare indietro nel tempo e prendermi a capocciate. In quel momento però sono sicura di aver avuto i miei ottimi motivi per dire, fare o pensare quelle cose che ora mi fanno venire la nausea al solo ricordo. Poi uno cresce, matura, si evolve e certe cose non le faremmo più, diventano inconcepibili, diventa strano anche solo pensarci. Quando ci rivengono in mente ci sentiamo stupidi perché non ricordiamo più cosa ci abbia spinti a farle, non riusciamo più a sentirci come ci sentivamo... non c'è cosa più difficile di provare a riprodurre un'emozione, una volta che se n'è andata.

A me ogni tanto capita di riuscire a sentirmi di nuovo come mi ero sentita una volta. Se mi impegno ogni tanto riesco di nuovo a sentire quel nodo alla gola che avevo prima di scendere dall'aereo a Portland. 
A volte ricordo esattamente com'era sentire la pelle d'oca e le mani che tremavano la prima volta che ho detto "ti amo". 
Se chiudo gli occhi posso tornare alle prime tre note di "With or without you" al mio primo concerto degli U2, alla gioia che era troppa e non mi faceva piangere e ho pensato di impazzire perchè ero troppo felice. 
Non dimenticherò mai il dolore sottile ma inevitabile di quando ti si spezza il cuore.
E, se mi concentro, riesco a sentirmi come mi ero sentita quando sono arrivata qui.

La sera tornavo ad un'altra casa, da un altro lavoro. 
Londra si calmava improvvisamente mentre camminavo, il sole scendeva lento, l'aria era sempre carica di aspettative: un pasto caldo, un sorriso, le promesse delle notti estive. I piumini che diventano giacche, le giacche che diventano magliette a maniche corte. Le porte delle case che si aprono e lasciano che il loro calore invada le strade per qualche secondo. Un amico, un abbraccio, le domande di circostanza che sembrano le parole più belle del mondo. La sensazione di essere dove devi essere, e che tutti questi "lavori in corso" stanno per arrivare alla fine, per portare dei frutti. Una birra, un sidro e sogni ad alta voce in un giardino d'asfalto. 
E poi scende la notte.

Stasera sono uscita a fare una passeggiata non appena mi sono accorta che il sole stava iniziando a scendere.
Il tramonto e l'alba sono i miei momenti preferiti della giornata: qualcosa inizia e qualcosa finisce. Il giorno e la notte arrivano sempre carichi di promesse, hanno sempre qualcosa da offrire,e a me piace tutta l'aspettativa che si respira.
Mentre camminavo ho pensato che devo tornare perchè sono mesi che non mi sento più come se fossi dove dovrei essere. E' troppo tempo che sono solo qui, lasciata al caso, in balia del vento. Sono andata lontano e non so come tornare indietro.
Ho paura e sono felice, ed è strano perchè è passato del tempo dall'ultima volta che ho sentito emozioni sincere venire da dentro di me piuttosto che da quello che mi succede al di fuori.

Penso ai tramonti mozziafiato su Roma, quando la luce sta per andarsene ed io torno a casa, con la pelle ancora calda da una giornata di sole e un vestito leggero che svolazza quando salto su per le scale. Sento il rumore dei piatti che mamma sta mettendo in tavola e papà che sposta la sedia per sedersi. Sento il sapore della birra fresca e l'immobilità dell'afa notturna. Sento una mano familiare che prende la mia, e una spalla su cui appoggiare la testa. 
La promessa di un'altra notte, e poi forse riusciremo a vedere l'alba.

Per momenti così vale la pena vivere.
Per viverli, torno a casa.




Mentre camminavo spunta l'arcobaleno. Lo prendo per un segno.





lunedì 9 marzo 2015

Le cose impossibili

Sarà che è lunedì. Sarà che per la prima volta in un mese mi sono svegliata con la sveglia e non da sola e senza stress. Sarà che da qualsiasi parte del mondo mi arrivano resoconti di giornate di merda.





Questa giornata si porta dietro una pesantezza d'animo di quelle che ti mandano a dormire alle nove di sera. Ti fa riconsiderare tutto quanto e ti sussurra che hai sbagliato tutto.

Sarà che io sono ipersensibile, perchè il presentimento di aver sbagliato un bel po' di cose ce l'ho già da qualche tempo.

Vorrei che ci fosse qualcuno in grado di spiegarmi perchè vogliamo quello che vogliamo. Forse sapere se è colpa dei deliri di onnipotenza, dei sensi di colpa latenti o di un ego smisurato aiuterebbe. Magari sapere perchè voglio le cose impossibili mi aiuterebbe ad estirpare il problema alla radice: cambiare quello che voglio.

Altrimenti mi servirebbe un modo efficace per far credere al mio cervello che ho semplicemente cambiato idea, che adesso voglio altre cose, più facili, più realistiche.

Qualche anno fa, quando la vocina guastafeste provava a suggerirmi che voglio le cose impossibili, la mia parte ambiziosa e ingenua rispondeva: "Perchè no? Perchè non io? Io posso tutto."
Io non posso tutto.

Le candeline sulla torta aumentano inevitabilmente, l'ingenuità si trasforma in cinismo e, piano piano, scendo a patti con la realtà: io non posso tutto. Non succederanno a me, le cose impossibili. Non so neanche perchè le voglio, le cose impossiibili.

Non voglio più aprirmi alla possibilità di deludermi ogni giorno.
Voglio aspettative più realistiche.
Voglio volere le cose possibili.


Come lo si dice al cuore, che deve cambiare idea?




venerdì 27 febbraio 2015

Pensavo

In un letto troppo rosa, in una casa troppo in alto, in una città troppo lontana, in un paese troppo caldo, pensavo.

Pensavo che è difficile continuare a dire "no" quando la gente mi dice "tieni duro".

Pensavo che il mondo è immenso e io sono ancora troppo piccola per conoscerlo e troppo stupida per capirlo senza giudicarlo.

Pensavo che il tempo è relativo: un anno sembra lungo se lo guardi dal punto di partenza, ma al dodicesimo mese ti guardi indietro e ti rendi conto che non è altro che una goccia nel mare.

Pensavo che il coraggio non si misura in atti di follia, decisioni improvvise o piccole spontaneità: si misura in caparbietà. Il coraggio è quella fermezza nel cuore di chi fa qualcosa perchè è giusto, anche senza l'appoggio degli altri, anche se sembra stupido.

Pensavo che si fa presto a dire "io sono", ma esserlo richiede un'umiltà, un'onestà e una consapevolezza che spesso non mi appartengono.

Pensavo che New York deve essere davvero stupenda, e che quando sarà il mio momento sarà ancora stupenda. Quando sarà il mio momento tutti questi puntini si uniranno ed avranno un senso.

Pensavo che c'è qualcuno che si aspetta di vedermi fallire. Però nell'altro angolo del ring c'è qualcuno che ride se rido, mi abbraccia se piango e, soprattutto, risponde se chiamo. E io per quelle persone tengo duro.

Pensavo che nessun mare azzurro, nessun monumento dorato e nessun tramonto mozzafiato potranno mai competere con la bellezza delle rughe di mio padre, della risata di mia madre e delle domande di un bambino.

Pensavo che ci sono scelte che vanno fatte e che ci renderanno forti, ma più di tutto ci renderanno chi siamo. Che scegliere comporta sempre un sacrificio, che non è mai facile, ma che a volte è giusto così.

Pensavo che è ora di smettere di farmi la guerra. Che io sarò io, con la voce troppo alta, le gambe troppo corte, le lacrime troppo facili e i sogni troppo grandi. Pensavo che, per questo, è ora di perdonarmi.


"To thine own self be true."

domenica 8 febbraio 2015

L'Età dell'Incertezza



Time Magazine ci ha battezzati "Millennials", la generazione del nuovo millennio che comprende tutti i nati dal 1981 al 1997. Sulla linea di demarcazione c'è ancora qualche dubbio: una generazione è tale quando ha una personalità comune o un'identità culturale largamente condivisa, se Time Magazine avesse ragione io e mio fratello faremmo parte della stessa generazione, quando invece di cose in comune io ne vedo poche, e le considero tutte causa del patrimonio genetico condiviso. Questo non toglie che continuano ad esserci, nel 2015, trentenni che si comportano come quelli nati nel 1997, ma questa è un'altra storia.

Ci sono tratti distintivi della Millennials Generation in cui mi rivedo completamente. Time Magazine ci chiama anche "Trophy Generation" per la nostra competitività spiccata, la voglia di vincere incontrastatamente e il rifiuto del concetto che la partecipazione sia in sé già una vittoria. Siamo una generazione che condivide tutto, troppo, si perde spesso e si lascia contaminare da quello che è disponibile allo scambio. Dicono che assomigliamo alla "Great Generation", i nati nei primi del Novecento, per l'attaccamento alla patria e il forte senso del dovere. Io dico che chi l'ha detto era alla disperata ricerca di qualcosa che confermasse la validità delle sue idee, quindi ha tirato un po' a casaccio.


Time Magazine ha detto che siamo la "generzione me-me-me", social network-dipendenti che non sanno godersi la vita reale, vivono a casa con mamma e papà e preferiscono inventarsi un lavoro che trovarne uno.





E' veramente una questione generazionale?
Siamo cresciuti in un'economia che cambiava troppo velocemente perchè potessimo stargli dietro, ci siamo diplomati durante la più grande crisi economica dei nostri tempi, viviamo (almeno noi italiani) in uno stato che non ci permette quasi di costruirci un futuro e ogni tanto non ci tutela neanche. Ci viene ricordato constantemente che là fuori c'è gente che diventa miliardaria perchè ha creato un'app, o girato un video porno, o si è ripresa mentre ingoiava una spada infuocata e poi ha messo il video su Facebook. Non possiamo non sentire il peso dei paragoni, e anche se riuscissimo ad ignorarlo, viviamo a casa con i nostri genitori: ce lo ricorderebbero loro.

Facciamo lavori che non capiamo per guadagnare soldi che non sappiamo gestire. Ci sentiamo sempre un po' troppo grandi per alcune cose e un po' troppo giovani per altre, ma non è una questione generazionale. E' che viviamo nell'età dell'incertezza, in cui un tweet può garantire celebrità istantanea a chiunque e i sintomi delle malattie si cercano su google invece che dal medico.



Questo articolo dell'Huffington Post mi è piaciuto, mi ha parlato e mi ha descritto in modi in cui io stessa non riuscivo a descrivermi. Parla di me che ho 23 anni, ma parla anche di tanta gente che ne ha 27, 19, 21. Parla di tutti noi, tormentati dalle aspettative e dall'ansia da prestazione che viviamo nell'età dell'incertezza, e che non cerchiamo altro che qualcosa a cui aggrapparci che sia sicuro, stabile e nostro.


mercoledì 4 febbraio 2015

Ascoltati


Non trovi le parole, però scrivi.
Scrivi perchè tanto nessuno ti legge, ma non lo pensi con vittimismo: è quasi una liberazione.
Se nessuno legge c'è ancora tempo; se nessuno legge, nessuno sa.

Non si dice ad alta voce che hai fallito, si pensa solo di notte con le luci spente.
Quanta paura che arriva con le luci spente, quando la lucidità dorme e la vita non sembra poi così diversa da una lunga striscia di insuccessi e tentativi troppo deboli per essere considerati validi.
Dicono che dovresti scrivere - scriverne - per occupare meglio la testa, per metterlo nero su bianco, perchè poi magari ha più senso.
Scriverne significa dire le cose ad alta voce, raccontarsi veramente, e non l'immagine vincente che la gente prova a vendere di sé

Non trovi le parole, perchè non sai da dove cominciare.
Forse sarebbe meglio cominciare dall'inizio, quando hai notato la prima volta le crepe sul soffitto e ti sei chiesta perchè nessuno ti aveva fermato quando tu eri così palesemente impreparata ad affrontare la vita.
Oppure potresti raccontare come ci si sente quando non si sa cosa cercare e quell'obiettivo che tutti volevano che tu avessi si è rivelato un fuoco di paglia. Quando le mani tremavano sulla tastiera e non volevi chiamare a casa perchè speravi di essere più forte.
Forse dovresti soltanto provare a spiegare come l'estraneità si trasforma in fastidio e il fastidio si trasforma in odio, e l'odio ti lascia irrazionalmente arrabbiata e con poche vie d'uscita.
Racconta la vergogna, il senso di colpa, le maledizioni e l'inadeguatezza.
O, semplicemente, scrivi che non sei felice, e che sei dannatamente brava a nasconderlo. L'infelicità non si intonerebbe con "l'immagine vincente che la gente prova a vendere di sé".

Non trovi le parole e non sai dove correre.
Qualcuno corre a casa, e tu quel qualcuno lo hai sempre giudicato con parole durissime. Non puoi, adesso, fare la stessa cosa, non puoi correre a casa, perchè avresti sbagliato due volte.
Corri in un altro posto, un posto migliore. Un posto dove tu sei migliore. Potresti essere migliore anche lì, dove sei adesso. Allora il problema sei tu. Prenditi una vacanza da te stessa, soltanto qualche ora. Illuditi di essere forte e grande e metti da parte la fallibilità, le imperfezioni. 
Domani tornerai ad aver perso, ma non preoccupartene ora.

Capisci che mentre cercavi te stessa hai scoperto cose che avresti preferito non sapere.
Difetti, paure, ansie, falle. Tantissime falle in un piano che credevi solido. Crepe sul soffitto. Lati oscuri. Dipendenze. Intolleranze. Tutti pezzi di te.

Adesso respira.
Concediti del tempo.
Ricalcola il percorso.
Ascoltati.


Quando poi ti calmi, prendi la rincorsa e ricomincia.





martedì 3 febbraio 2015

Segnali di pazzia imminente

10 schede aperte nel mio browser:
Facebook
Linkedin 
Google search "esaurimento nervoso cure omeopatiche"
Australian Government - Department of Immigration
Radio Kiss Kiss - live podcast
The Guardian Jobs
Immobiliare.it
Google Maps
Tickets for The Harry Potter Experience
Google search "sugarfree pancakes"

10 cose che ho fatto negli ultimi sette giorni:
Disiscrivermi in palestra
Rischiare una denuncia per stalking
Mangiare più di 500g di cioccolata al giorno
Prenotare un biglietto aereo e cambiare volo il giorno dopo
Considerato seriamente il Cammino di Santiago
Bere alcolici prima di mezzogiorno
Andare a correre sotto la neve
Cercare su google "che lingua parlano in Burkina Faso" alle 4:25 di notte
Richiedere un visto per un'altra nazione
Fare tre docce in un giorno

10 cose che penso quando mi sveglio la mattina:
"Quanto manca al 10 febbraio?"
"Stasera per cena cioccolata e panna montata"
"8 ore di sonno non sono lontanamente abbastanza"
"Avrei dovuto fermarmi al terzo bicchiere di vino"
"Quanto manca alla primavera?"
"Devo telefonare a mia madre"
"Perchè abito a Londra e non a Rio de Janeiro?"
"Prosecco"
"Se mi metto la maglietta di Harry Potter per andare a lavorare sono una sfigata?"
"Chissà Steve Jobs che faceva alla mia età"

10 cose che ho in programma di fare nel prossimo mese:
Prendere così tanto sole che torno a Londra e mi chiedono se sono italiana
Bere Prosecco prima di mezzogiorno
Ridere fino alle lacrime
Guidare cantando a squarciagola canzoni che negli ultimi mesi ho sentito solo con le cuffiette
Sedermi all'aperto senza il rischio di congelare sulla sedia
Fare il bagno in mare
Leggere un intero libro durante un solo volo
Mangiare così tanto pane, così tanta pizza e così tanta pasta da diventare uno stereotipo
Svegliarmi con il sole
Essere ubriaca senza vergognarmene minimamente perchè ho amici ubriachi accanto




Ma soprattutto: tornare in uno stato di serenità mentale e scampare all'imminente esaurimento nervoso.
Tra una settimana sono in Italia, tra due in Thailandia. Ferie, arrivo.




mercoledì 28 gennaio 2015

Whiplash - il potere dell'ambizione


Dicono che un'infatuazione duri dieci giorni, quello che viene dopo è amore.
Ho aspettato dieci giorni per scrivere questo post.


Qualche settimana fa vedo un poster in metropolitana: Miles Teller (che conosco perchè guardo una quantità imbarazzante di commedie romantiche), in piedi su quella che sembra una grandissima bacchetta per suonare la batteria.
Sotto c'è una recensione, che dice "So good it'll change the way you look at life"
"Talmente bello che cambierà il modo in cui guardate la vita".



Ricordo di aver alzato scetticamente le sopracciglia, pensando tra me e me che chiunque l'avesse scritto fosse un tantino pretenzioso e che ogni tanto gli inglese sono capaci di lasciarsi andare solo quando scrivono boiate. Mica nelle relazioni interpersonali, no, in quelle è tutto "fine", "alright" e altri aggettivi che non sanno né di carne né di pesce, ma fagli scrivere una recensione e improvvisamente diventa "the best thing you will ever see in your life".
Quella pubblicità però ha fatto il suo lavoro: ore dopo quelle parole mi giravano ancora in testa.
Passa una settimana, escono le nomination agli Oscar e io giro per la città senza molto da fare. Mi ritrovo di nuovo di fronte al poster.
Decido di metterlo alla prova. Salgo in metro e vado al cinema.


Whiplash è la storia di un ragazzo che studia le percussioni al conservatorio Shaffer di New York City. Allo Shaffer c'è un famoso musicista che dirige la banda scolastica più prestigiosa d'America: per un caso fortuito il protagonista viene reclutato ed inizia a suonare le percussioni nella banda.
Sarebbe una storia come tante altre, come mille altre, se non fosse per un particolare su cui si regge l'intera struttura di Whiplash: l'ambizione.
Il protagonista vuole essere grande, il più grande tra i grandi, al punto di rinunciare a tutto e di spingersi fino all'estremo per dimostrare al suo insegnante, ma anche a chiunque stia guardando, di essere abbastanza bravo.

Whiplash è un film meraviglioso: intenso e scorrevole, coinvolgente e provocatorio. E' riuscito nell'impresa impossibile di incantare una ragazza che il jazz lo odia. Mi ha tenuto incollata al sedile per due ore che sono letteralmente volate via.
Ma non è soltanto il film. Non è neanche soltanto la storia dietro al film.
E' la motivazione dietro alla storia, dietro al film.
La convinzione che c'è una necessità assoluta in questo mondo di spingere le persone oltre quello che ci si aspetta da loro. Il bisogno di andare oltre quello che ci viene richiesto e percorrere quello che gli Americani chiamano "the extra mile", sempre, e non soltanto per ricevere riconoscimenti. Perchè la vita è quello che succede tra quello che devi fare e the extra mile.
La vita è quello che succede mentre percorri quel miglio in più.
E' il sangue che sputi, la bile che ingoi, le lacrime che trattieni e quelle che versi. La vita è quel milione di dubbi che si fa vedere solo di notte, è quella vocina nella tua testa che ti dice che ci devi provare di nuovo. E' la tentazione di alzare la bandiera bianca e la consapevolezza che sei più forte di così.



C'è sempre bisogno di qualcuno che ci ricordi che si può, si deve, andare oltre. Essere oltre. Ogni tanto sono le esortazioni di un genitore, le parole gentili di un'amica, l'entusiasmo di uno sconosciuto. Ogni tanto è un film.


Whiplash è un film talmente bello da cambiare il modo in cui guardate la vita.



in Italia dal 12 febbraio al cinema

lunedì 26 gennaio 2015

Nord e Sud

Mi sveglio e mi stiracchio pigrissima e baciata dal sole timido di una domenica inglese.
Dopo aver capito chi sono, dove sono e che giorno è, azzardo qualche progetto per la giornata a venire.
Come dicevo, è domenica, e c'è il sole.
La domenica su di me ha sempre un po' quell'effetto "giornodelsignore" che richiede quasi che tu rimanga nel letto il più a lungo possibile, altrimenti sarebbe un sacrilegio. Il sole, poi, è quel timidissimo sole inglese che fa capolino da dietro le nuvole un minuto sì e due ore no, ma qui loro lo chiamano "sunny" comunque. Beata ignoranza.
Quindi, mi rigiro nel letto con il buon proposito di andare a fare una passeggiata in un quartiere di Londra che ancora non ho mai visto, tipo Chelsea.
Però fa freddo, ho una scatola di cioccolatini nella credenza e devo mettermi in pari con Orange is the New Black.

Vado-nonvado-vado-nonvado.
Vado.
Una donna saggia.

Chelsea sembra un piccolo mondo a parte, rispetto alla grande Londra.
Non c'è lo scintillio delle luci di Piccadilly, non c'è l'ostentazione di Notting Hill e neanche il menefreghismo di Camden: si respira un'atmosfera placida, calma, profondamente inglese.
Le case improvvisamente diventano belle, quasi invidiabili. Le macchine sono costose, i giardini curati, gli ospedali non cadono a pezzi.



La ricchezza traspare da ogni mattoncino rosso ma non ti prende a sberle in faccia come succede in altri posti. Ti sussurra all'orecchio, e dice: "Dicevi che non ti piace Londra, eh? Ma non sarebbe bello abitare qui?"


E mentre io cammino con il naso all'insù - perchè nel frattempo quel sole timido di cui sopra ha deciso di farsi vedere di nuovo - ecco che ricomincio a sentirmi un po' più turista, un po' meno padrona.



Sono abituata a questa città, ai suoi odori, ai suoi ritmi, alle sue tante contraddizioni. Lo sono talmente tanto da dimenticarmi, a volte, di essere soltanto un ospite qui.



Altro giro, altra corsa.

Un pacco di Amazon che doveva arrivarmi a casa si è rivelato essere troppo grande per la nostra buca delle lettere, e quindi viene tenuto in ostaggio all'ufficio postale di Winchmore Hill, North London. Per una volta, più a nord di casa mia.
Un posto talmente isolato che per andarci devo prendere un treno (Un treno, non la metropolitana. Quant'era che non prendevo un treno?).
Quando scendo dal treno mi aspetto di trovarmi in uno di quei posti con i graffiti sui muri e in cui cammini a testa bassa e senza incrociare lo sguardo di nessuno per paura di venire seguita e stuprata in qualche vicolo (sì, sono un pochino melodrammatica).

Invece mi ritrovo in questo grandissimo giardino con case grandi e pulite e tanti bar con i tavolini fuori, pochissime macchine e un sacco di bambini che giocano al parco.


North London è brutta, eh?
Il prossimo che mi dice una cosa del genere verrà malmenato e trascinato per i denti a Winchmore Hill.



Questo solo per dire: quando c'è da scoprire un posto nuovo è troppo facile cadere nella trappola e dare ascolto a chi, per eccezioni o per sentito dire, si è fatto già un'idea precisa.
"Milano è grigia"
"Dublino è cara"
"Venezia è sopravvalutata"

E invece dietro al luogo comune ci sono sempre, sempre un milione di vicoli da scoprire. E ne vale sempre, sempre la pena.





martedì 13 gennaio 2015

Martedì notte: ricordi e scatoloni impolverati



E' mezzanotte e dieci, è martedì sera, vorrei dire che sono ubriaca ma ho ancora un briciolo di amor proprio quindi diciamo solo che ho bevuto un pochino. (C'erano due bottiglie di vino, due persone hanno bevuto un bicchiere e io ho buttato due bottiglie vuote. Non lo so come sia potuto succedere.)
No, domani non lavoro. E grazie al cielo, aggiungerei, perchè lavorare con un doposbornia come quello che avrò domani dovrebbe essere illegale.

Sono a casa, più precisamente sono nel mio letto (visto che mia mamma legge questo blog e si preoccupa sempre quando bevo troppo o quando le dico che i miei progetti per la serata sono "bere fino a che non svengo sul divano". Io queste cose le dico davvero. Sono io che ho problemi, mica mia mamma. L'onestà non paga mai.)
Ho passato le ultime tre ore a:
a) raccontare ai miei coinquilini cose che sono successe e che non avrei dovuto raccontare, se non altro per non riaprire scatoloni impolverati e nascosti nella memoria e perchè è stato come aprire il vaso di Pandora: è improvvisamente uscita fuori un sacco di merda.
b) mandare messaggi idioti a un sacco di gente. Principalmente amici. Principalmente persone che so domani non me lo rinfacceranno ma che comunque coglieranno al volo l'occasione per prendermi in giro al riguardo non appena ci vediamo. Dico "principalmente" perchè, seppure ancora un po' brilla, sono perfettamente consapevole di aver mandato quel messaggio o due di troppo che avrei potuto risparmiarmi. Questi messaggi sono il motivo principale per cui dovrei imparare a spegnere il telefono quando bevo.
c) rileggere il blog che ho scritto quando ero in America.Ho riso, ho pianto, ho ricordato cose che altrimenti sarebbero state perse nei meandri della mia memoria. Ho sentito un dolore forte al cuore che è il sintomo principale della mancanza, e ho cercato di analizzare tutto questo con la lucidità emotiva che soltanto un ubriaco solitario può avere.

"Non è che l'hai idealizzata un po'?" ha chiesto mio fratello l'ultima volta che abbiamo parlato dell'America.
Certo che l'ho idealizzata. This is what I do: io idealizzo le cose. Questo non vuol dire che io non creda al cento percento nella mia idealizzatissima idea dell'America. Questo non vuol dire che io non mi aggrapperò alla mia idea con tutte le mie forze, anche e soprattutto nella remota eventualità che l'America si riveli essere anche solo leggermente peggiore di come io me la ricordi.
Come ho scritto l'ultima volta: certe cose non cambiano.
Come mi ripeto tutti i giorni: l'ultima metà è l'America.

Negli scatoloni impolverati nascosti nei meandri della mia memoria, quelli di cui parlavo prima, ci sono cose alle quali di solito non mi permetto di pensare. Alcune perchè non è passato ancora abbastanza tempo, altre perchè non c'è ancora una soluzione, altre perchè fanno male e io non sono masochista.
Altre ancora, tutte e tre le risposte.
Arrivano dei giorni in cui, per quanto uno provi ad evitarlo, la vita ce la mette tutta per fartici pensare.

"In dreams, I meet you in long conversations. We both wake, in lonely bits, in different cities."

Quando non c'è una via d'uscita piacevole sarebbe meglio evitare il problema; quando il problema è inevitabile sarebbe meglio costruirsi un'armatura per evitare, almeno, di farsi male ogni santa volta.
Quando entrambe le cose sono impossibili, si chiudono gli occhi e si prega che qualcuno, per quanto lontano, si senta nello stesso modo.

"Will you sleep tonight, will you think of me? Will I shake this off, pretend it's all okay? That there's someone out there, who feels just like me. There is."




Tra le tantissime cose che ho idealizzato nella vita c'è il mio modo di scrivere di quando ero in America. Mi sono sempre riletta pensando "cavolo, ero brava. Quanto vorrei ancora poter scrivere così, ora non ho più niente da dire."
E invece, rileggere ubriachi aiuta.
Perchè ho capito che non è vero che non ho più niente da dire. E' che con l'età, l'avvento dei social media e qualche nemico in più sono drasticamente diminuite le cose che sembro essere disposta a condividere.
Per questo adesso ho scritto senza pensare due volte a quello che ho condiviso.
Magari tra una settimana lo rileggo e mi rendo conto che condividere tutto è l'unico modo che conosco per essere me stessa, ed essere me stessa è l'unico modo che conosco per scrivere bene.

Elucubrazioni a parte, tra 28 giorni torno a casa. Questo è il primo pensiero con cui mi sveglio ogni mattina, nel mio piccolo ma comodissimo e solitario letto londinese.



p.s. Hemingway diceva "write drunk, edit sober".
Io ho seguito solo la prima parte del consiglio, ma #yolo.

venerdì 9 gennaio 2015

Cose che credevo di sapere su me stessa

Non mi piace Fabio Volo ma ho letto tutti i suoi libri. Sono una di quelle persone convinte che prima di insultare qualcosa si dovrebbe fare uno sforzo e provare a conoscerla.
Fabio Volo scrive storielle e penso che i suoi libri non siano un granché, ma ogni tanto tra tutte quelle frasi con poco senso si riescono a trovare parole o situazioni che ti rimangono in testa.
Il mio libro preferito tra i suoi è "E' una vita che ti aspetto", per tanti motivi. Quello principale è che credo che il messaggio che il libro cerca di trasmettere sia vero: se uno si vuole bene è felice, se uno è felice attrae felicità. Semplice.
Prima di volersi bene, però, bisogna conoscersi. Esattamente come bisogna conoscere una cosa prima di insultarla. E' una strada a doppio senso.

Ci sono degli aspetti di me che ho sempre dato per scontati, prendendoli come assiomi, e per i quali tanta gente mi conosce.
"Mery piange per qualsiasi film, anche per la pubblicità della Scottex con il cucciolo di Labrador"
(CHI non si emoziona con quel cane? E' il cane più tenero sulla faccia della terra, se non vi emozionate non avete un cuore.)
"Maria Chiara non mangia nessun tipo di frutta e verdura, e ODIA i pomodori"
(Qui è "Maria Chiara" perchè queste parole di solito escono dalla bocca di mia madre, che tra l'altro per questo motivo qui, ne sono certa, ha sempre segretamente meditato di disconoscermi come figlia)
"Il mio sport preferito è il salto sul divano"
(L'onestà c'è. Se avessi un secondo nome su Facebook sarei Mery Culodepiombo Pacifici).


Life motto.

Potrei elencare altre dieci cose che mi rendono "me" agli occhi della gente (Prosecco, anyone?).
Sono tratti distintivi, particolarità a cui ci aggrappiamo con le unghie e con i denti e dietro le quali ci nascondiamo spesso.
Chi di noi non ha mai detto o sentito dire "Eh, lo so, sono uno stronzo... ma sono fatto così, non posso farci niente." Il sottotitolo è "se non ti sta bene è un problema tuo e risolvitelo senza rompere le palle".
Il non poter farci niente non è vero. E' nascondersi dietro a un dito. Non è un problema degli altri, è un problema di tutti.




Negli ultimi sei mesi ho provato a conoscermi un po' più a fondo, a definirmi meglio.
Ho scoperto che tante cose che pensavo fossero certe non sono più vere, altre ancora non lo sono mai state.
Non posso più essere "quella che non mangia verdure e ODIA i pomodori", perchè li ho mangiati l'altra sera per la prima volta e, sinceramente, c'è di peggio. Mi ritrovo a cucinarmi mega insalate di spinaci e carote per pranzo, a non poter vivere senza peperoni, a mangiare le ciliegie (e per questo mio padre potrebbe gridare al miracolo. Già me lo vedo.)
Evito la farina bianca e ho eliminato lo zucchero (perchè fa male, guardate qui e poi ditemi se riuscite a bere un bicchiere di Coca Cola). In pratica mia sorella sarebbe fiera di me, mia madre sarebbe incredula e la mia migliore amica scuote la testa e pensa che io sia pazza perchè compro il miele light e le bacche di goji.

Non posso più essere "culodepiombo" perchè passo la metà del mio tempo libero in palestra.
Lo so, non me lo spiego neanche io.
Da quando ho smesso di fumare (!!!) vedo il corpo che reagisce con più prontezza e mi piace metterlo un po' alla prova.
Il salto sul divano è sempre il mio sport preferito, solo che ora mi sento un po' meno in colpa perchè per ogni tre ore sul divano ne ho passata una in palestra.



Per quanto riguarda il piangere per qualsiasi cosa, quello non è cambiato.
Sarò sempre una frignona.
Certe cose non cambiano.


Joey = Mery